Labirinti di carta
- Il Blog di Barbara Scudieri & Marco Martano -
Film e serie tv
TOP 12 FILM
UNA STORIA VERA
di David Lynch
VOTO 10
PSYCO
di Alfred Hitchcock
VOTO 10
INCEPTION
di Christopher Nolan
VOTO 9,5
DOLLS
di Takeshi Kitano
VOTO 9
BIG EYES
di Tim Burton
VOTO 9
RAN
di Akira Kurosawa
VOTO 9
SHUTTER ISLAND
di Francis Ford Coppola
VOTO 9
MYSTIC RIVER
di Clint Eastwood
VOTO 9
ONE HOUR PHOTO
di Mark Romanek
VOTO 9
IL LABIRINTO DEL FAUNO
di Guillermo Del Toro
VOTO 9
JOKER
di Todd Phillips
VOTO 9
LA CITTA' INCANTATA
di Hayao Miyazaki
VOTO 9
TOP 4 SERIE TV
THE WALKING DEAD
Disponibile su FOX TV
VOTO 9,5
THE HOUNTING OF BLY MANOR
Disponibile su NETFLIX
VOTO 9
STRANGER THINGS
Disponibile su NETFLIX
VOTO 9
THE END OF F***ING WORLD
Disponibile su NETFLIX
VOTO 8,5
UNA STORIA VERA di David Lynch
Nel 1999 David Lynch presenta la sua nuova opera: ”Una storia vera”. La vicenda, come cita il titolo, riprende la storia vera di Alvin Straight, interpretato da uno straordinario Richard Farnsworth, testardo e determinato settantatreenne, che non accetta i segni e i limiti che il tempo ha lasciato sul suo corpo. I suoi occhi non vedevano più bene, e quindi non può guidare l’auto, i suoi problemi alle anche lo costringevano a camminare con due bastoni ma, nonostante ciò, Alvin che viveva con la figlia (Sissy Spacek) nell’Iowa, decide di intraprendere un viaggio di oltre 300 miglia (500 Km) su un vecchio tagliaerba per andare nel Wisconsin a trovare, prima che sia troppo tardi, il fratello Lyle, colpito da infarto, con il quale non parlava più da anni in seguito ad un litigio banale. E’ un viaggio di espiazione, con cui Alvin si libera dei suoi rimorsi, del suo assurdo orgoglio e in cui ripercorre le tappe della sua vita per chiudere il cerchio della propria esistenza tornando a quegli istanti di felicità vissuti nell’infanzia, quando passava le serate a guardare le stelle con Lyle. Non c’è il solito Lynch dietro “Una storia vera”. Il regista non ha bisogno di esprimere visivamente i pensieri del protagonista, come suo solito, perché con Alvin si trova di fronte una persona vera, semplice, sincera, disposta a mostrare la sua anima, senza nascondere i propri errori e senza quei labirinti mentali che spesso i personaggi di Lynch si creano per filtrare il proprio io. Alvin è come lo vediamo e attraverso la sua storia Lynch può mostrare, per una volta, gli aspetti più edificanti della società americana. L’impietoso accusatore qui diventa poeta, perché l’opera che nasce è di una poeticità talmente profonda da toccare l’anima insinuando nello spettatore un melanconico bisogno di tornare alle origini: alla natura.
Il film è accompagnato da quella che è tra le più belle colonne sonore di Badalamenti.
Come tutti i film di Lynch, non basta vederlo, va vissuto e forse il motivo per cui molti lo giudicano il più bel film del regista originario del Montana, è che non c’è bisogno di straziare la propria mente per scovarne il senso perché anche se non se ne colgono tutti i significati nascosti, il film resta bellissimo. È questo il vero tratto di distinzione di “Una storia vera” rispetto agli altri film di Lynch, così complessi e labirintici. È un road-movie dal ritmo disteso che ci immerge negli splendidi paesaggi del Wisconsin. Lynch parla della vecchiaia sottolineandone la dignità ma anche l’amarezza e i rimpianti che emergono dalle parole di Alvin; ”La cosa più triste dell’essere vecchi è il ricordo di quando si era giovani”.

HANA-BI di Takeshi Kitano
Con “Hana-Bi” Takeshi Kitano crea un’opera che fa delle contraddizioni i cardini su cui far ruotare tutti gli elementi e dà un saggio straordinario del proprio cinema dove la contaminazione di generi e la riflessione sulla vita e sulla morte trovano una nuova variante. Kitano indica un nuovo cammino attraverso il quale fuggire dal mondo disperato: l’arte. “Hana-Bi” (il cui significato, “fuochi d‘artificio”, è un termine formato da 2 opposti: “Hana”, fiore, simbolo della vita, e “Bi”, fuoco, simbolo della morte) è un’opera amara e allo stesso tempo dolce, violenta e delicata, e narra il dramma interiore dell’ex detective Nishi (Takeshi Kitano) e il suo desiderio di regalare alla moglie, gravemente malata, l’ultimo viaggio insieme. Un viaggio che è per Nishi anche un modo per espiare i peccati di cui si sente responsabile: la paralisi dell’amico Horibe e la morte di un giovane collega. Kitano si aggira tra i generi del cinema spaziando continuamente tra il poliziesco puro, il pulp, il noir, il melodramma per poi costruire un drammatico finale che rimane tra i ricordi cinematografici più originali e spiazzanti. Un viaggio verso la morte, ma “Hana-Bi” mostra anche il ritorno alla vita per mezzo dell’arte, un filo di speranza che il regista ci mostra attraverso il personaggio di Horibe, che ha saputo rinascere grazie alla pittura. L’arte come antidoto alla morte era già stata teorizzata, in altri termini, da uno dei più grandi semiologi e storici del cinema, Christian Metz, il quale concepiva l’immagine filmica come qualcosa che, cristallizzando il presente, rende immortale l’individuo. La retorica di Kitano arricchisce la teoria attribuendo all’arte un potere terapeutico. Tentare di guardare il film di Kitano vivendolo sarebbe uno sbaglio. Occorre coglierne, intuirne l’essenza, chiudere gli occhi e far propria un’emozione creando un ponte empatico col regista, riuscendo ad andare oltre l’arcana apparenza per scorgere tutto il dolore ed il mare di sentimenti oscurati da un’apparente imperturbabilità. Kitano cammina in equilibrio tra quegli elementi e forze opposte che intercorrono lungo tutta l’opera e che ritroviamo anche nel montaggio in cui si alternano lunghi e statici piani-sequenza a momenti di grande mobilità scenica che Kitano arricchisce mostrando alcuni dipinti da lui stesso realizzati che, ancora una volta, trovano il proprio nucleo nelle opposizioni. “Hana-Bi” ha trionfato alla Mostra del cinema di Venezia nel 1997, dove si è aggiudicato il Leone d’oro, consacrando Kitano come uno dei grandi artisti e filosofi cinematografici del nostro tempo.

BIG FISH di Tim Burton
Tim Burton è, senza ombra di dubbio, il più grande narratore di favole cinematografiche: da “Edward mani di forbice” a “Nightmare before Christmas”, passando per “Il mistero di Sleepy Hollow”, “La fabbrica di cioccolato”, “Batman”, “Beetlejuice”, ecc., il regista americano, il quale più che hollywoodiano potrebbe essere definito “halloweeniano”, ha sempre fatto del fantastico la colonna portante del suo cinema. Nel 2004 Tim Burton tira fuori dal cilindro il suo film più bello, filosofico ed autobiografico: “Big Fish”. L’ opera, tratta dall’omonimo romanzo di Daniel Wallace, narra la vita di Edward Bloom (Ewan McGregor e Albert Finney), un uomo che ha vissuto avventure incredibili, troppo incredibili, al punto che il figlio Will (Billy Crudup), cresciuto esaltandosi per i racconti del padre, divenuto adulto si accorge di aver perso il contatto con la realtà e se ne riappropria allontanandosi da quelle fantasie e dal padre, col quale ormai non trova più punti di contatto, finendo con l’evitare ogni dialogo con quel genitore la cui esuberante immaginazione ha creato nel figlio la reazione opposta, spingendolo verso una chiusura ad ogni fantasia. Will desidera solo che il padre ammetta che quei racconti sono invenzioni. Ma qualcosa cambierà e Will scoprirà quanta verità c’è in quelle favole e con quanta luce si può illuminare la vita con l’aiuto della fantasia. Il maestro della fiaba gotica mescola sapientemente realtà e sogno, riuscendo a commuovere e divertire. Con questo film Tim Burton rende omaggio alla sua musa: l’Immaginazione. Il regista proietta il suo ruolo di narratore nel film facendo di Edward Bloom il suo alter ego che si oppone al figlio Will, cioè a colui, a coloro che non credono più nella fantasia. Il regista ammette di aver costruito il rapporto conflittuale dei due protagonisti traendo spunto dalla sua esperienza personale: “Con mio padre non c’era un buon rapporto. Credo che un figlio tenda sempre a diventare l’opposto del proprio padre”. “Big Fish” è per Tim Burton quello che “La vita è meravigliosa” è stato per Frank Capra: il film che meglio esprime la poetica del regista ed un’opera che sa riconciliare lo spettatore con la propria vita, un invito ad enfatizzarne gli aspetti positivi. Non è casuale l’accostamento tra i due registi: nonostante siano stilisticamente agli antipodi, oggi Burton è ciò che Capra è stato nella prima metà del 1900, ovvero un regista capace di abbattere i muri illuministici che stanno imprigionando sempre più le nostre menti, per immergerci in mondi meravigliosi, che ci chiedono solo di mettere in dubbio la nostra percezione delle cose e saperle rendere un po’ più magiche.

SHINING di Stanley Kubrik
Ogni opera di Kubrick racchiude mille significati. Sono universi dinanzi ai quali domande e dubbi non trovano che enigmatiche e sotterranee risposte. Lasciarsi catturare dal fascino delle immagini, uniche detentrici di una verità che non sarà mai del tutto svelata dal regista, sempre reticente nel fornire delucidazioni sui suoi film e sui loro significati, sarà l’unica strada da seguire per comprendere uno dei più grandi geni del cinema contemporaneo. Affermare che “Shining” sia un capolavoro del genere horror sarebbe riduttivo e nello stesso tempo sbagliato. Pur essendo un horror, il film contiene una critica radicale al genere splatter-gore (“schizzo di sangue”) che nacque alla fine degli anni ’60 con “La notte dei morti viventi” di Romero, per poi esplodere nel 1974 con “Non aprite quella porta” di Tobe Hooper, film che attuò una profonda trasformazione del cinema horror basato sul corpo e sul suo smembramento. Dopo “2001:odissea nello spazio” e “Arancia meccanica”, con “Shining” Kubrick sembra lasciar trapelare e puntualizzare il suo pensiero filosofico attraverso la storia di Jack Torrence (Jack Nicolson), uno scrittore che, con la moglie Wendy (Shelley Duvall) e il figlio Danny (Danny Lloyd), accetta l’incarico di far da guardiano all’Overlook Hotel, luogo affascinante ma infernale, immerso nella solitudine delle Montagne Rocciose dove finirà per impazzire fino a tentare di uccidere la famiglia, mostrando un quadro degradante dell’esistenza umana che, chiusa tra le sbarre di un mondo infestato (l’Overlook Hotel), si lascia corrompere dalla sua negatività, dimostrando come il seme del Male affondi silenziosamente le sue radici nell’uomo stesso. Nonostante il pessimismo radicale delle sue opere, Kubrick lascia posto alla speranza grazie al personaggio del bambino e al suo “shining” (“luccicanza”), capacità extrasensoriale di vedere, attraverso lo sguardo dell’innocenza, quale terribile avvenimento passato sia accaduto nell’Overlook Hotel e nei suoi labirintici e infinti corridoi, mostrati attraverso una profondità di campo resa ancor più suggestiva dal regista grazie all’uso innovativo della steady-cam che, dotata di sistemi idraulici particolari, rende possibile una mobilità spaziale e una fluidità del movimento veramente eccezionali che con una cinepresa normale sarebbe stato difficile ottenere. Il film è caratterizzato da una raffinatezza formale unica ed evidente nelle splendide inquadrature, nelle spettacolari carrellate, nell’incantevole fotografia e nelle significative scelte cromatiche soprattutto per quanto riguarda l’albergo, interamente ricostruito in studio, in cui viene resa perfettamente l’atmosfera inquietante e surreale originata da un’entità superiore che domina l’uomo dall’alto della sua malvagità (Overlook significa proprio dominare). Il capolavoro di Kubrick è basato sull’omonimo romanzo di Stephen King, il quale però rimase deluso dal film che non risultava fedele alle regole del genere narrativo del suo libro. Mentre in Stephen King predomina una razionalizzazione eccessiva, in Kubrick l’irrazionale esplode nella follia di Jack nella cui mente si insinuano le forze oscure del male. È un’opera complessa e geniale che accompagna lo spettatore in un viaggio allucinante nei meandri più profondi dell’inconscio umano.

DOLLS di Takeshi Kitano
“Dolls” (2002) è il film di un regista, attore, pittore, comico, scrittore che rende omaggio al celebre teatro delle marionette giapponesi, il Bunraku, e lo ridisegna innestandolo nell’arte cinematografica ed amalgamandone i temi alla società giapponese di oggi. Un dipinto in movimento che nasconde, sotto la sua tela, tanti aspetti e significati difficili da decifrare. Il nodo centrale è l’amore ed il suo stretto legame con la morte che ci è mostrato attraverso gli splendidi colori e le suggestive visioni di una natura che muta, portando via con se il calore di quei brevi attimi di gioia che cadranno via come le rosse foglie degli aceri in autunno, che le splendide immagini di Kitano riescono a catturare. “Dolls” è la “Divina Commedia” di Takeshi Kitano, un’opera dove il paradiso visivo contrasta con il purgatorio in cui vagano i personaggi alla ricerca di una via d’uscita che sarà l’inferno, la morte. Il film ci mostra tre storie d’amore che diventa disperazione nel momento in cui si perde la persona amata, fino a trovare riparo in un’instabile pazzia. Una coppia di amanti che sarà divisa dall’ambizione di lui che, cedendo alle pressioni dei genitori, si convincerà a sposare la figlia di una ricca famiglia. Quando l’uomo deciderà di tornare indietro e seguire il suo cuore potrebbe essere troppo tardi. Una donna che attende da anni, sulla stessa panchina, il suo amore di gioventù che le aveva promesso di tornare, ma che invece ha sostituito il ricordo di lei con l’ambizione aveva spinto ad entrare nella yakuza, la mafia giapponese. Un uomo che dedica la sua vita alla passione per una cantante e che deciderà di accecarsi quando questa, in seguito ad un incidente, rimarrà sfigurata e sparirà dalle scene.
Kitano spiega quanto sia forte in Giappone il legame tra amore e morte e quanto lo è in quest’opera in cui il simbolismo non è una componente del film, è il film stesso. Il regista, in un’intervista, racconta la sua esperienza vissuta qualche anno fa, quando in seguito ad un grave incidente che ne aveva messo a repentaglio la vita, ricevette alcune lettere di fan che minacciavano di uccidersi se egli fosse morto. Lo turbò scoprire che la morte potesse essere il supremo gesto d’amore e forse fu proprio in quel momento che nacque l’idea per questo film.
In occidente Kitano è considerato il più importante regista orientale degli ultimi anni ed uno dei più geniali in assoluto insieme a Ozu, Kurosawa e Mizoguchi. Il suo stile lento, che sa alternare malinconia e violenza, humour e disperazione, riempie le sue opere di un’autorialità immediatamente riconoscibile che gli valse il Leone d’oro a Venezia nel ’97 con “Hana-bi”.
Splendida la fotografia di Katsumi Yanagijama, mentre l’eccessività dei costumi, disegnati dal famoso stilista Yohji Yamamoto , segue comunque una traccia di coerenza con l’opposizione bellezza-dolore che permea l’intera opera. Ogni fotogramma potrebbe essere estrapolato e incorniciato. “Dolls” è una creazione estrema e lo è anche in ciò che crea nello spettatore: o piace tantissimo o non piace affatto, ma in entrambi i casi rimane nella memoria.

Scrivi per proporci un film o una serie