Labirinti di carta
- Il Blog di Barbara Scudieri & Marco Martano -
Film e serie tv
28 GIORNI DOPO di Danny Boyle
Dopo la sfortunata parentesi americana, conclusasi con “The beach”, opera apprezzata solo dagli sprovveduti e da qualche globetrotter da spiaggia, Danny Boyle torna in patria dove si riscatta subito con “28 giorni dopo”, un horror apocalittico di stampo romeriano. Un gruppo di animalisti fa irruzione in un laboratorio dove alcuni scimpanzé, affetti da un virus che li rende estremamente rabbiosi, sono obbligati a guardare ininterrottamente immagini dal contenuto violento. Ignorando gli avvertimenti dei ricercatori, gli animalisti liberano gli scimpanzé, dai quali verranno immediatamente aggrediti. 28 giorni dopo, in un ospedale, Jim (Cillian Murphy) si risveglia dal coma in una Londra deserta e inizia a vagare nell’inquietante solitudine della città priva di vita per scoprire i segni che sembrano presagire la fine di una civiltà spazzata via da qualcosa di feroce. Ma la solitudine è solo apparente perché chi non è morto si è trasformato in qualcos’altro… Con questo film, girato in digitale, in poco più di 2 mesi e con un budget bassissimo, Boyle dimostra che la “materia grigia” è più importante di quella “gialla” e staremo qui a parlare di un capolavoro assoluto se non fosse per una seconda parte del film in cui l’angosciosa atmosfera, che attanaglia una prima ora impeccabile, diviene rarefatta e disturbata da un eccesso di ostentazione eroica e da un antimilitarismo giusto ma che toglie enfasi al film. “28 giorni dopo” rimane comunque lo splatter-horror più interessante che il cinema ci abbia regalato nell’ultimo ventennio e che sotto tanti punti di vista supera nettamente i capolavori di Romero, Carpenter e Hooper. Il regista di “Trainspotting”, lontano dalle catene hollywoodiane, conferma il suo talento grazie ad un’opera ben strutturata e che, tolto qualche passo falso, riesce a dare emozioni vere. Un film che appassiona e coinvolge non solo gli amanti del genere perché sa dosare i momenti di spavento senza inflazionarli e non annoia nei momenti di calma apparente riuscendo anche a commuovere. Danny Boyle non commette l’errore in cui spesso cadono gli autori del genere splatter che è quello di trascurare l’aspetto psicologico dei personaggi, rendendo assurda la concatenazione causa-effetto fondamentale affinché il film sia credibile. Un plauso a Boyle ed un incoraggiamento al cinema low-budget, indipendente e soprattutto puro, se per puro si intende un cinema fatto di opere che siano il perfetto riflesso dell’idea mentale dei soli autori. (Fox)

2001: Odissea nello spazio
di Stanley Kubrick
Nel 1965 Stanley Kubrick si accorda con la Metro Goldwyn Mayer per girare un film di fantascienza, “La conquista del sistema solare”, ispirato al racconto “The sentinel” del visionario scrittore Arthur C. Clarke. Il progetto originale prevedeva un prologo di dieci minuti, in bianco e nero, dove alcuni scienziati venivano intervistati sulla possibile esistenza di vita extraterrestre. Il film sarebbe stato un’esplorazione del sistema solare e la scoperta di un’intelligenza extraterrestre. Il nucleo del film fu ribaltato dal regista trasformandolo in un’opera mistica. Kubrick cambiò più volte il titolo che divenne prima “Journey beyond stars”, poi il definitivo “2001: odissea nello spazio”. Inoltre il regista, dopo le prime proiezioni-test, eliminò il prologo e decise che il suo film sarebbe stato quasi esclusivamente visivo, senza spiegazioni e con dialoghi estremamente rarefatti. Nasce così, nel 1968, l’opera massima di Stanley Kubrick, un film complesso, filosofico e geniale. L’odissea del regista newyorkese è divisa in tre capitoli. Il primo è intitolato “L’alba dell’uomo” e mostra la nascita del pensiero razionale umano: nell’era preistorico un gruppo di scimmie, il cui capobranco scopre come usare un osso per uccidere un nemico. Quel gesto violento, per Kubrick, rappresenta la sintesi della storia umana e da qui, con un salto nel tempo, veniamo trascinati all’inizio del XXI secolo, a bordo di un’astronave che volteggia nell’universo accompagnata dalle note del “Bel Danubio blu” di Strauss. Kubrick scelse dei classici della musica per accompagnare il film, arricchendo così la sua storia di una solennità ancor più carica. Il primo capitolo termina con la scoperta, sulla Luna, di un monolito, segno dell’esistenza di una forma di vita extraterrestre. Inizia il viaggio dell’astronave Discovery ed inizia il secondo capitolo: “18 mesi dopo: in missione verso Giove”. La vicenda ruota intorno ad HAL 9000, l’intelligenza artificiale che regola i comandi dell’astronave. HAL (nel primo progetto del regista il nome era Athena, come la dea della saggezza, poi si optò per HAL, che nasce dalle parole Heuristic e ALgorithmic, i due processi di apprendimento che caratterizzano il computer) si ribellerà all’uomo prendendo il comando dell’astronave. L’astronauta David Bowman (Keir Dullea) riuscirà a disattivare HAL. Rilevante il fatto che HAL, pur essendo un’entità artefatta, sia l’unico personaggio veramente “umano” del film, tant’è che la sequenza della sua “morte” è considerata uno dei momenti (rarissimi) più toccanti del cinema di Kubrick. Il terzo ed ultimo capitolo, “Giove e oltre l’infinito”, è il sommo emblema della visionarietà cinematografica, visionarietà in tutti i sensi perché rappresenta l’arrivo di David Bowman nel mondo visivo che raggiunge attraverso i suoi occhi. Kubrick, per rappresentare il luogo della memoria, scelse una stanza settecentesca in stile Rococò. Il Settecento è l’epoca in cui l’Illuminismo trionfa sull’Oscurantismo. Da ciò deriva la scelta dell’ambiente in cui gli extraterrestri permetteranno a David di incontrare se stesso nelle varie fasi della sua vita, fino alla morte e alla rinascita. La scena finale, il bambino nell’embrione sospeso nell’universo accanto al monolito, è una delle più famose icone del cinema. Quello che stupisce ancora oggi di questo film sono le spettacolari scenografie, soprattutto tenendo presente che si tratta di un film realizzato quaranta anni fa. Merito soprattutto di una squadra di scenografi e tecnici (106 in totale) capeggiati da Tony Master, vincitore dell’Oscar nel ’62 per gli splendidi allestimenti scenici del capolavoro di David Lean, “Lawrence d’Arabia”. “2001: odissea nello spazio” è un film il cui fascino è inferiore solo alla sua forza inquietante. Il 7 marzo 2001, a due anni esatti dalle morte di Kubrick (7 marzo 1999) il film è tornato nelle sale cinematografiche e molti hanno potuto stupirsi dei tanti punti di contatto tra il 2001 immaginato dal regista e il 2001 reale, tra le tante profezie avveratesi spicca quella delle stazioni spaziali (non dimentichiamo che nel ’68 l’uomo non aveva ancora neanche messo piede sulla Luna). Il film si è aggiudicato, nel 1968, l’Oscar per gli effetti speciali, misero riconoscimento per uno dei più grandi capolavori di tutti i tempi.

UNBREAKABLE di Manoj N. Shyamalan
Unbreakable, secondo film di M. N. Shyamalan, prende spunto da una delle culture più diffuse: il fumetto, i suoi supereroi, la loro origine. David Dunn (Bruce Willis) è l’unico superstite di un incidente ferroviario che causa oltre 100 morti. David ne esce senza un graffio. Venuto a conoscenza di questa vicenda Elijah Price(Samuel L. Jakson), collezionista di fumetti, affetto da una malattia che rende le sue ossa fragili come vetro, decide di verificare se David è indistruttibile come gli eroi dei fumetti, idea che a David appare del tutto folle, ma che comincia a insinuarsi nella sua mente, assecondata dal figlioletto, disposto anche a mettere in pericolo la vita del padre, pur di credere in questo sogno.
Shyamalan incentra ancora una volta la sua storia sull’analisi psicologica di personaggi infelici, ma dotati di qualità eccezionali. E’ un film di chiare ambizioni filosofiche, sulla ricerca umana di un ruolo nel mondo e nella vita, sull’insopportabilità del non sapere il perché della propria esistenza, sulla necessità di seguire il proprio destino. Il regista si conferma un maestro nel creare suspense attraverso un ritmo lento unito spesso a finali spiazzanti che sono diventati una delle costanti del cinema di Shyamalan. Unbreakable ha probabilmente deluso le aspettative degli amanti di quel genere thriller-horror incentrato sullo spavento e sull’emozione fini a se stessi, difatti, se dopo il sesto senso qualche dubbio fosse rimasto, con questo film Shyamalan prende decisamente la strada di un cinema riflessivo, profondamente metaforico e decisamente di livello superiore alla media, quel cinema che magari accontenta la critica e scontenta un po’ il grande pubblico.

LE VERITA' NASCOSTE di Robert Zemeckis
New England. Claire (Michelle Pfeiffer), moglie di un medico igienista, Norman Spencer (Harrison Ford), dopo aver subito un brutto incidente di macchina comincia a vedere e sentire presenze inquietanti nella nuova casa sul lago in cui si è da poco trasferita col marito. Ossessionata da queste visioni che offuscano la sua mente, Claire arriva a credere che il vicino di casa sia un uxoricida, mentre le apparizioni del fantasma di una misteriosa donna si fanno sempre più angosciose. Saranno solo allucinazioni o esiste qualcosa o qualcuno che sta cercando di comunicare con lei? Zemeckis costruisce la struttura narrativa facendo intersecare due piani, quello reale e quello sovrannaturale, in un film ad alta tensione in cui la sceneggiatura di Carl Gregg rivela quanto basta allo spettatore per confonderlo e stupirlo in un gioco intricato di mistero e suspense, realtà e apparenza. Le verità sono sapientemente nascoste dal regista non solo grazie ad una sceneggiatura originale che fa intendere ciò che non è, ma anche grazie ad un’atmosfera hitchcockiana di voci, suoni e rumori arricchita dalla musica di Alan Silvestri che segue lo stile di Bernard Herrmann. “Cinema e suspense sono fatti l’uno per l’altro. Penso che niente sia in grado di manipolare il tempo, lo spazio e le tecniche di racconto come un film. Ho sempre desiderato mettermi alla prova nella regia di qualcosa di davvero terrificante e misterioso”. Con queste parole Zemeckis aveva definito le intenzioni registiche di realizzare un thriller che risente molto dell’influenza di un maestro della tensione come Hitchcock sia per quanto riguarda il tema del doppio che vede nel personaggio interpretato da H. Ford la più completa esplicitazione (il nome del protagonista Norman rimanda a quello di Norman Bates in Psyco), sia per quanto riguarda l’analisi psicologica di personaggi che hanno subito traumi mentali (Claire è, infatti, reduce da un incidente). Avvalendosi dell’ottima fotografia di Don Burgess, Zemeckis, sulla scia del grande maestro inglese, vuole regalare al pubblico un film in cui non esiste tempo per annoiarsi, in cui la suspense coinvolge lo spettatore dal primo all’ultimo minuto in una spirale di eventi misteriosi ed indecifrabili fino a sfiorare l’inverosimile, perché, come diceva Hitchcock, ”il cinema deve trattare l’inverosimile”.

IL GRANDE DITTATORE di Charles Chaplin
È il 1940 quando Charles Spencer Chaplin si troverà di fronte al più importante bivio della sua carriera cinematografica. Il piccolo vagabondo indosserà per l’ultima volta il suo buffo costume e dirà addio alla sua maschera muta. Si sacrificherà per un ideale molto più grande: la pace. In quel periodo il regime e l’ideologia nazista erano ancora all’inizio della loro escalation criminale e non tutti avevano intuito il profondo disprezzo su cui si fondavano. Le origini ebraiche di Chaplin ed il suo idealismo non gli permettevano di tollerare le idee di Hitler, come non poteva rimanere impassibile di fronte all’uso propagandistico che il regime nazista faceva del mezzo cinematografico. Nasce così “Il grande dittatore”, uno dei film più coraggiosi della storia del cinema, non il più bel film di Chaplin, ma forse il più importante se si analizza il contesto storico in cui fu realizzato. Per produrre il film Chaplin dovette utilizzare buona parte della sua fortuna pur sapendo che l’opera avrebbe trovato grande difficoltà nell’essere distribuita all’estero, in particolare in Europa (in Italia è uscito solo nel ’49). Chaplin aveva sempre rifiutato di girare un film sonoro perché, a suo dire, l’opera avrebbe perso quelle peculiarità e quelle caratteristiche trasmesse dalla pantomima, su cui il cinema era nato. Ne “Il grande dittatore”, Chaplin dà voce al suo personaggio per lanciare un monito di pace e solidarietà al mondo. La satira con cui racconta le gesta del dittatore Hinkel (Hitler, interpretato da Chaplin), la sua alleanza con Napaloni (Mussolini, Jack Oakie), le sue manie di grandezza creano oggi un’ilarità neanche lontanamente proporzionale ai rischi a cui questo film ha esposto il suo autore. É un film comico che resta tale finché non ci si ferma a pensare a cosa c’è dietro. É in realtà il film più drammatico e amaro di Chaplin ed ogni gag è un pugnale nascosto dentro un orsacchiotto di peluche. C’è chi erroneamente lo paragona a “La vita e bella” di Benigni. Con tutto il rispetto per quello che è uno dei migliori film italiani dell’ultimo ventennio, non si può paragonare un atto d’accusa ad una rivisitazione storica. “Il grande dittatore” è un film scritto nel destino di Charles Chaplin. L’evidente somiglianza fisica tra Il regista inglese ed il dittatore tedesco è solo uno dei tanti legami tra i due: entrambi sono nati nell’aprile del 1889 (Chaplin il 16, Hitler il 20), entrambi sono nati da una famiglia estremamente povera, entrambi hanno vissuto la propria infanzia in orfanotrofio. I due hanno in comune un profondo amore per l’arte: Hitler tentò a lungo, invano, di essere ammesso all’Accademia delle belle arti, prima di rinunciarvi e scegliere la carriera militare e politica. Tra le tante sequenze eccezionali del film resta indimenticabile quella del balletto di Hinkel col mappamondo ed i siparietti tra Hinkel e Napaloni dove entrambi cercano di dimostrare la propria grandezza all’altro. I tagli attuati nella prima versione proiettata in Italia hanno fatto sparire il personaggio della moglie di Napaloni, probabilmente per non offendere Rachele Mussolini, moglie del Duce, che nel ’49 era ancora in vita. Dopo “Il grande dittatore”, come detto, Chaplin non impersonerà più il vagabondo ed il suo personaggio non indosserà più i classici baffetti. Il cinema nel ’40 perse una delle sue icone ma trovò un regista che, a differenza di tanti autori del muto che non hanno saputo adattarsi al sonoro, è stato capace di confermare il suo infinito talento, ricostruendo se stesso, il suo personaggio ed il suo cinema, regalando tanti altri capolavori come “Luci della ribalta” (‘52) e soprattutto l’amarissimo e geniale “Monsieur Verdoux” (’47), nato da un’idea di Orson Welles. I veri grandi sanno esserlo in tutto ciò che fanno.

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