Labirinti di carta
- Il Blog di Barbara Scudieri & Marco Martano -
Film e serie tv
IL CACCIATORE DI AQUILONI di Marc Forster

Tratto dall’omonimo romanzo di Khaled Hosseini (scrittore americano di origine afgana), Il cacciatore di aquiloni, che si apre nella città di Kabul del 1978, narra la storia della profonda amicizia di due bambini afgani di diversa estrazione sociale: Amir è figlio di Baba, un uomo facoltoso appartenente all’etnia Pashtun, Hassan, invece, è figlio del loro servitore di etnia degli Hazara. I due sono legati da una tenera complicità e, spinti dall’amore per gli aquiloni, partecipano ad una gara insieme agli altri bambini: vincerà l’aquilone che resterà in volo per ultimo dopo aver spezzato tutti gli altri. In seguito alla gara, Amir assiste ad un fatto che lo sconvolgerà e lo porterà ad allontanarsi dall’amico. Le due vite si separeranno per un lungo periodo fino al giorno in cui il destino le farà incrociare nuovamente, portando alla luce una verità importante che indurrà Amir (Khalid Abdalla), divenuto uno scrittore affermato negli Stati Uniti, a tornare nel suo paese di origine, ormai finito sotto il violento regime dei Talebani. Il viaggio di espiazione di Amir rappresenta non solo un ritorno all’infanzia, ma anche un modo per recuperare i propri errori, per guardare dentro di sé e liberarsi di un senso di colpa racchiuso nell’anima dal dolore. Diretto da Marc Forster (Stay, Vero come la finzione), Il cacciatore di aquiloni è un film bellissimo che, privilegiando le emozioni alle vicende storiche e ripercorrendo i passi di un’amicizia nell’arco di un ventennio di storia afgana, sa arrivare all’anima dello spettatore, inducendolo ad una profonda riflessione sulla vita e sulla forza dell’amore.
INLAND EMPIRE di David Lynch
Presentato alla 63°mostra del cinema di Venezia in occasione del premio alla carriera consegnato a Lynch, INLAND EMPIRE racconta la storia di un’attrice (Laura Dern) che vive in un lussuoso quartiere di Los Angeles (Inland Empire) e che ottiene la parte da protagonista in un film diretto da un importante regista ( Jeremy Irons). Ma INLAND EMPIRE rappresenta anche qualcos’altro: è, come lo definisce Lynch ,”il mondo interiore che si agita in ognuno di noi”, e che è in Nikki, la protagonista del film, la cui vita, che coincide con l’arte, sarà sconvolta dal tradimento, da cui scaturiranno i sensi di colpa nei confronti del marito e la perdita della propria stabilità emotiva. Ma al di là di questa prima lettura, il film è più propriamente, la storia della nascita del male che, come narrato nella prima parte dalla vicina di casa di Nikki, si insinua di riflesso nell’individuo una volta varcata la soglia di casa, ovvero nel momento in cui si entra in un mondo dominato dall’ immoralità, dove il male, istigato, si rivela, fino alla decadenza morale interiore che si riflette nell’ambiente circostante. Intorno alla protagonista e al suo delirante flusso di coscienza sembrano regnare la solitudine e l’indifferenza. La struttura di INLAND EMPIRE ricorda quella di “Mulholland drive”(2001), film con il quale Lynch si è aggiudicato il premio per la regia a Cannes: se nella prima parte mantiene un’approssimativa logicità, nella seconda si ramifica inestricabilmente in un viaggio nei labirinti dell’ inconscio, in bilico tra realtà e sogni, incubi e allucinazioni trasformati in immagini dal gioco di luci, suoni e dal sapiente utilizzo del grandangolo che distorce i volti e crea profondità di campo. E’ un film che non si può raccontare, si può solo percepire, guardandolo e lasciandosi andare ad un’ esperienza sensoriale. In INLAND EMPIRE sono presenti gli elementi portanti dello stile di Lynch: sperimentalismo, una spiccata propensione al surrealismo, analisi dei lati oscuri dell’ essere umano e la ricerca della mostruosità nella normalità e viceversa come il regista mostra in film come “Velluto blu”(1986) e “ The Elephant man”(1980). Non mancano la predilezione per l’immaginario perverso e visionario e la descrizione di un essere umano incapace di controllare la propria vita, temi già affrontati da Lynch in “Strade perdute”(1997).Una delle peculiarità più originali dello stile di Lynch è il tema del male e della sua manifestazione: esso sembra risiedere, prima che negli individui, negli oggetti che si caricano di importanti valenze simboliche come nella serie Twin Peaks dove un vecchio disco guida il detective Cooper alle sue macabre scoperte o come il tagliaerbe di “Una storia vera”o ancora come la scatola blu di “Mulholland drive”. In INLAND EMPIRE tra i tanti oggetti del male troviamo una lampada rossa o la seta bucata da una sigaretta a rappresentare l’anima lacerata dal peccato che lascia intravedere un mondo di perdizione. Girato in digitale, senza una sceneggiatura rigida, INLAND EMPIRE è un film per un pubblico d’ élite nel senso grotowskiano del termine, cioè rivolto ad uno spettatore che accetti di assistere a qualcosa che lo turberà, lo spiazzerà, magari frustrerà la propria curiosità, imponendo alla propria mente di essere completamente aperta e recettiva dinanzi ad un universo di emozioni e di sensazioni dove è il pubblico a cercare soggettivamente le proprie chiavi di lettura.

IL FALSARIO di Stefan Ruzowitzky
Tratto dal libro “The Devil’s workshop” di Adolf Burger e basato su fatti realmente accaduti, Il falsario racconta della più grande operazione di contraffazione di denaro di tutti i tempi: l’operazione Bernhard. Lanciata nel 1942 ed escogitata dai nazisti al fine di produrre sterline inglesi e dollari americani falsi per indebolire le economie dei paesi nemici, l’operazione Bernhard fu portata avanti da ebrei stampatori professionisti, grafici, tipografi costretti dai tedeschi a produrre denaro falso come unica possibilità di sopravvivenza alle atrocità dei campi di concentramento. Chi si opponeva al progetto andava incontro a morte sicura. Chi accettava di far parte della Gabbia dorata, come la chiamavano i detenuti, aveva decisamente condizioni di vita migliori rispetto agli altri ebrei a patto che il lavoro andasse per il verso giusto. A presiedere al progetto il più grande falsario della storia di tutti i tempi: l’ebreo Salomon Sorowitsch (Karl Markovics) grazie al quale furono stampate oltre centotrenta milioni di sterline. Di quella esperienza ha così raccontato Burger, colui che tentò allora di boicottare la produzione del dollaro per far fallire l’operazione: “Vivevamo in un posto che non era un campo di concentramento. Avevamo dei letti e da mangiare, potevamo giocare a ping pong, ma eravamo dei morti in vacanza. Fino ad oggi ho dovuto convivere con il pensiero di mia moglie Gisela che come milioni di ebrei fu mandata a morire nelle camere a gas”. Il film, diretto con grande perizia da Ruzowitzky, è candidato all’Oscar come miglior film straniero.

IL SESTO SENSO di Monoj Night Shyamalan
In questo thriller paranormale che ha lanciato su scala mondale e reso famoso il bravissimo regista indiano M.Night Shyamalan, Bruce Willis è Malcom Crowe, uno stimato psicologo infantile che, dopo un brutto incidente di percorso con un suo ex paziente che arriva addirittura a sparargli, torna a dedicarsi al suo lavoro, decidendo di occuparsi del piccolo Cole (Haley Joll Osment), di nove anni, che gli rivela in uno dei loro incontri un segreto: egli riesce a vedere le anime delle persone morte e a comunicare con loro. Ed ecco che ritorna il significato cui il titolo del film allude: il sesto senso è, infatti, proprio quella capacità di mettersi in contatto con l’aldilà, con l’ ignoto, è la predisposizione a sentire ciò che gli altri non riescono a sentire, a vedere ciò che non è tangibile né spiegabile dalla razionalità umana. Ne Il sesto senso Shyamalan sembra preannunciare ciò che sarà uno dei temi prediletti della sua filmografia: quello di sondare le paure più inconsce dell’individuo dinanzi all’ignoto, dinanzi a quelle situazioni inquietanti che la mente umana rifiuta di credere, come è il caso nel film sia dello scettico psicologo Crowe che solo dopo qualche incontro dimostra di aver fiducia in Cole e nel suo “sesto senso” sia della madre del bambino che crederà alle sue parole solo quando avrà la prova tangibile che esiste una vera propria comunicazione tra il figlio e il mondo dei morti. Caratterizzato da un ritmo lento che accresce la tensione e da una fotografia cupa e gelida che crea un’atmosfera inquietante, il film si presenta come un grande puzzle dove lo spettatore, ingannato più volte dal regista, ha il compito di mettere insieme i pezzi del mosaico e di farli incastrare perfettamente anche se sarà il colpo di scena finale a sorprenderlo nettamente e a rivelargli la verità sull’identità dei personaggi di questa tela intricata tessuta da un regista come Shyamalan che sa mescolare sapientemente due ingredienti fondamentali del genere thriller, suspense e sorpresa, grazie ad uno stile particolare ma mai eccessivamente esibito.

FRAILTYdi Bill Paxton
Nel 2001 l’attore Bill Paxton esordisce alla regia con un film che all’uscita nelle sale viene pubblicizzato come “il film più inquietante dopo Shining”. Quasi sempre l’enfasi che accompagna l’uscita di alcuni film si rivela un’illusoria trappola pubblicitaria. Non è il caso di “Frailty”, un’opera che di diritto entra a far parte dei film più allucinati e inquietanti del cinema contemporaneo. Ci troviamo in Texas, dove l’FBI è sulle tracce di un serial killer che cela la propria identità dietro lo pseudonimo “Mano di Dio”. Una sera un uomo (Matthew McConaughey) chiede di parlare con Doyle (Powers Boothe), l’agente che si occupa del caso, a cui confida di conoscere l’identità del killer. Da questo momento il racconto procede per lunghi flashback che narrano di un padre (Bill Paxton) che una notte racconta ai due figli di aver avuto una visione mistica: un angelo gli ha parlato rivelandogli quale sia il suo compito e quello dei suoi figli, ovvero uccidere “i demoni”, quelle persone che si sono rese colpevoli e nascondono peccati mortali. Di fronte alle parole del padre i due figli reagiranno in maniera opposta: il piccolo Adam crederà e appoggerà le intenzioni del genitore, Fenton, il maggiore, sconvolto da tale intento si opporrà al padre subendo le dure conseguenze, mentali e fisiche, del suo rifiuto di seguire il volere divino. È un film emozionante, coinvolgente e che nel finale spiazza lo spettatore che solo all’ultimo potrà capire quale delle tante chiavi di lettura che Paxton ci suggerisce è quella giusta. Bene e male si mescolano ma, allo stesso tempo, si scontrano in un film che mette in dubbio l’oggettività del peccato. L’atmosfera gotica riesce ad immergere lo spettatore in un clima che richiama alla mente la tenebrosa visionarietà dei racconti di Edgar Allan Poe, e fa da perfetto contorno ad un’opera che ha i maggiori pregi nel aver saputo unire fascino mistico e incubo e nel saper mantenere alta la tensione drammatica per tutto il film. Paxton afferma di essersi ispirato ai capolavori di Robert Aldrich ed Alfred Hitchcock, infatti il titolo “Frailty”, di una sola parola, non piaceva al regista, ma poi l’ha approvato pensando a “Psyco” e “Vertigo” (“La donna che visse due volte”). “Frailty” è un film che porta lo spettatore a porsi delle domande, a interrogarsi sulla natura dei personaggi: squilibrati o mentalmente sani? Ma è anche un film sulla perdita dell’innocenza che il regista metaforizza ambientando una vicenda angosciosa in un luogo idilliaco. Non a caso, infatti, le vittime sono sepolte in un bellissimo roseto che col tempo si trasfigura, come l’anima dei protagonisti, diventando un luogo spettrale. Sono molti i riferimenti all’Antico Testamento. Un esempio lo rtoviamo nel nome del piccolo Adam (Adamo), o nell’evidente trasposizione della storia di Abramo che avrebbe dovuto uccidere il figlio Isacco per dimostrare la sua fede. Quello di Paxton è un esordio eccellente, impreziosito dal plauso dei produttori tra cui aleggiava un certo scetticismo di fronte alla richiesta dell’inesperto Bill Paxton di dirigere un opera così complessa, controversa ed emotivamente forte.

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