Labirinti di carta
- Il Blog di Barbara Scudieri & Marco Martano -
Film e serie tv
MYSTIC RIVER di Clint Eastwood
Boston, 1975. L’infanzia di Sean (Kevin Bacon), Jimmy (Sean Penn) e Dave (Tim Robbins) procede spensierata fino al giorno in cui uno di loro, Dave, è adescato e costretto a “salire su una macchina”. Sarà vittima di abusi sessuali e violenze. Da allora nulla sarà come prima, i tre si separeranno sino al giorno in cui, venticinque anni dopo, il destino tornerà ad incrociarne le strade e affiderà loro tre ruoli tanto diversi e opposti: Sean è divenuto un detective della polizia, Jimmy è un ex carcerato e padre di famiglia, Dave cerca di costruirsi una vita normale nonostante i segni lasciati sulla sua anima dal trauma subito durante l’infanzia. Sarà il dolore a far intersecare di nuovo le tre esistenze quando la figlia di Jimmy sarà brutalmente assassinata e le indagini svolte da Sean, cui si aggiungeranno quelle parallele e spasmodiche di Jimmy, sconvolto dall’accaduto e desideroso di vendetta, ruoteranno intorno alla figura del caro e sfortunato amico d’infanzia, Dave, ora presunto colpevole dell’assassinio. Le spietate e assurde regole del mondo adulto che hanno contribuito a spezzare la loro amicizia da bambini torneranno a separare le loro vite ancora una volta. Diretto magistralmente da Clint Eastwood, acuto osservatore della realtà e degli eventi, descritti attraverso immagini di limpidezza stilistica che lascia trapelare, senza giochi registici, la drammaticità della storia e l’introspezione psicologica dei personaggi, il film descrive un’America imperfetta e violenta, lontana dall’idealizzazione del sogno americano, in cui la sete di vendetta e il dolore, accecheranno i protagonisti fino a corrompere le loro anime in un gioco narrativo perverso e abile nell’alternare il male e il bene, la colpevolezza e l’innocenza senza distinzioni. Uno sguardo dall’alto, quello del regista statunitense, che osserva e descrive, attraverso suggestive immagini cinematografiche, il dolore di tre uomini alle prese con la crudeltà del fato. A fare da sfondo alla storia, di un’intensità unica, è il silenzioso fiume “Mystic River”, metafora di citazione eraclitea della vita che, simile all’acqua, scorre, fluisce,diviene, muta, ma rappresenta anche il simbolo della catarsi dei peccati, indispensabile perché l’anima possa raggiungere la redenzione e la liberazione dal male. Nessun peccato verrà, però, espiato. Sarà il sacrificio di un innocente, il sangue di un capro espiatorio, a ristabilire l’ordine apparente in un mondo dominato dalle ingiustizie e dai pregiudizi, un mondo in cui la Legge e lo Stato non esistono, in cui nessuno ha colpa e nessuno è innocente, perché tutto è capovolto e assurdo e dominato dalle regole dell’omertà e del sopruso. Tratto dal romanzo di Dennis Lehane e sostenuto dall’ottima sceneggiatura di Brian Helgeland, il film è arricchito, oltre che dalla straordinaria interpretazione dei tre protagonisti, dalla suggestiva colonna sonora firmata dallo stesso Clint Eastwood, che per la prima volta si cimenta da solo in un’operazione del genere, difficile ma riuscitissima. E’ un film straziante e bellissimo, un capolavoro che sa raccontare le ombre dell’animo umano, le mille contraddizioni della vita. Vincitore di due premi Oscar, miglior attore protagonista Sean Penn, non protagonista Tim Robbins. (Warner Bros)

ONE HOUR PHOTO di Mark Romanek
Sy Parrish (Robin Williams) è un 50enne impiegato in un centro di sviluppo e stampa di foto. Attraverso quelle fotografie Sy costruisce una vita con la quale sostituisce la sua vuota esistenza. Il protagonista respinge la sua solitudine proiettandosi in quei momenti di vita altrui catturati dalla pellicola. Entra così, idealmente, a far parte della famiglia degli Yorkin, suoi clienti affezionati, di cui ha ricostruito la vita attraverso quelle foto che stampa da anni. Ma il suo mondo, creato su un’ illusione, cadrà nel momento in cui scoprirà che quella famiglia, che credeva idilliaca, in realtà si regge sulla falsità. Ciò farà emergere la sua rabbia sommersa, una rabbia che ha antiche radici in un’infanzia drammatica e che porterà Sy ad odiare l’ingrata famiglia Yorkin che ha tradito la sua fiducia. “One hour photo” è un film d’autore, esaltato da una scrittura registica di alto livello che fa del quasi esordiente Mark Romanek un regista di sicuro avvenire. L’introspezione psicologica in questo film conta più della coerenza narrativa. Per capire il mondo di Sy dobbiamo addentrarci nella sua mente e ascoltare la sua muta disperazione, scoprendo passo dopo passo, i motivi per cui un uomo può arrivare ad odiare tanto la sua vita e i suoi ricordi da doversene liberare innalzando una diga di illusioni, per interrompere e cercare di dimenticare quel fiume di dolore. L’interpretazione di Robin Williams conferma il talento dell’attore per i ruoli drammatici, talento troppo poco sfruttato. Quando un attore comico riesce ad aderire con tale trasporto ad un ruolo così drammatico e amaro, non si può che aggiungere un “grande” davanti al nome della sua professione. Il finale del film è enigmatico e riuscire a leggerne il senso profondo significa aver riconosciuto un capolavoro.

RAN di Akira Kurosawa
Il Gran Principe Hidetora (Tatsuya Nakadai), vedendosi ormai sulla strada della vecchiaia, decide di dividere il suo principato tra i suoi tre figli. La brama di potere sarà però più forte dei vincoli di sangue ed il caos scenderà sul principato e nella mente del vecchio Hidetora. “Ran” (rivolta, caos, follia) è, con “I sette samurai”, la più alta vetta raggiunta da Akira Kurosawa ed uno dei capolavori assoluti della settima arte. All’uscita del film, nel 1985, Woody Allen lo definì “il più bel film dell’ultimo decennio!”. Il grande maestro Akira Kurosawa, a quindici anni di distanza dal suo tentato suicidio, rielabora probabilmente i dolori della sua vicenda personale, per creare un’opera disperata che punta il dito sulla caduta dei valori e sulla stoltezza di un essere umano che, accecato dal desiderio di prevalere sul prossimo e dalla propria ambizione, non si accorge di condurre un’esistenza infelice, un essere umano che “ricerca il dolore, non la gioia”, ma è anche una protesta contro l’ingiustizia e una profonda riflessione sul senso e il significato del dolore. La struttura del film riprende l’opera Shakespeariana “Re Lear”. Kurosawa, infatti, non nascondeva la sua passione per le opere del massimo drammaturgo inglese, da cui aveva tratto ispirazione nel 1957 per “Trono di sangue”, adattando “Macbeth”. “Ran” mostra il cammino di espiazione dei peccati di un uomo che, recuperando la propria umiltà, si rende conto delle crudeltà da egli commesse e non può sopportarle. La pazzia sarà l’unico conforto per Hidetora, l’unico angolo buio dove il dolore non potrà trovarlo. “Ran” è un opera d’autore, un film apocalittico, stilisticamente impeccabile in cui gli splendidi e verdeggianti paesaggi, che fanno da contorno alla prima parte della vicenda, spariscono progressivamente accompagnando la regressione dei personaggi e la loro distruzione, lasciando il posto ad una landa deserta. Memorabile la sequenza dell’assalto al castello, dove il regista sostituisce i suoni della battaglia con un adagio composto da Takemitsu Toru, col quale Kurosawa aveva già collaborato per la colonna sonora di “Dodes’ka-den” (1970). Akira Kurosawa è il regista orientale che più è riuscito a farsi apprezzare e ad influenzare il cinema occidentale. Vincitore del Leone d’Oro e dell’oscar come miglior film straniero con “Rashomon” nel 1950, nel 1975 riceve ancora l’oscar per “Dersu Uzula”. Nel 1980 il suo “Kagemusha” viene premiato a Cannes con la palma d’oro. Kurosawa è molto apprezzato dai più grandi registi contemporanei: Martin Scorsese ha sempre visto in lui un maestro, Francis Ford Coppola ammette l’influenza che il grande regista di Tokyo ha avuto sulle sue opere: “ Ho visto “I sette samurai” prima di girare “Apocalypse Now” e per me è stato uno shock culturale”. Kurosawa ha fortemente ispirato il genere western: “Per un pugno di dollari”, l’opera che ha lanciato Sergio Leone ed il mito del western all’italiana, è una trasposizione di “La sfida del samurai”, mentre “I magnifici sette” di John Sturges riprende la storia di “I sette samurai”. Persino George Lucas per la saga fantascientifica di “Star Wars” ha tratto spunto da un’opera del grande maestro nipponico: “La fortezza nascosta” (1958).

VIALE DEL TRAMONTO di Billy Wilder
Diretto nel 1950 da Billy Wilder, “Viale del tramonto” è un capolavoro assoluto del genere noir, uno dei più bei film della storia del cinema sul cinismo del mondo hollywoodiano e sulle spietate regole di un mercato cinematografico che con l’avvento del sonoro accantonò i vecchi attori e le grandi star del muto lasciandoli precipitare negli abissi dell’oblio, esperienza questa vissuta nella realtà dalla protagonista stessa del film, Gloria Swanson, che, disillusa, abbandonò il cinema per circa vent’ anni dedicandosi prevalentemente al teatro e alla radio. L’opera, di un’amarezza struggente, si apre con un lungo flashback che racconta la storia di uno sceneggiatore disoccupato di Hollywood, Joe Gillis (William Holden), il quale, per sfuggire ai debitori che vogliono sequestrargli l’automobile, si rifugia in una villa gotica sul Sunset Boulevard (Los Angeles), dove incontra Norma Desmond (Gloria Swanson per l’appunto), una famosa attrice del cinema muto, che vive nella solitudine e nel ricordo di un passato da diva ormai lontano, di cui restano solo la nostalgia e l’illusione di un possibile ritorno al cinema, a quel mondo che invece l’ha dimenticata per sempre. Prigioniera dei ricordi e delle ossessioni, evidenziate dalle sue stesse parole “Io sono ancora grande, è il cinema che è diventato piccolo!”, sospesa tra la nostalgia e la follia, Norma Desmond propone a Joe di visionare la sceneggiatura di un film scritto per lei, per il suo grande ritorno al cinema, inconsapevole del fatto che la sua carriera di attrice sia già sul viale del tramonto. Caducità del successo, decadenza dell’arte, corruzione del cinema, rimpianto del passato, non accettazione del presente si mescolano in un film a metà tra noir e horror, permeato dalle atmosfere cupe e inquietanti della villa gotica, in cui la diva vive sola con il maggiordomo (interpretato da Eric von Stroheim, celebre regista, che con l’avvento del sonoro non riuscì realmente più a trovare un produttore a Hollywood che finanziasse i suoi progetti, ragion per cui si dedicò alla carriera di attore). Chiusa nel ricordo di un passato glorioso che non esiste più, Norma Desmond riverserà la sua follia e il suo desiderio di essere amata, di sentirsi ancora importante come un tempo, nel rapporto con Joe, che diventerà vittima del suo amore e del suo squilibrio mentale. Il nichilismo e il disagio esistenziale si proiettano drammaticamente nei personaggi e negli ambienti, sui quali il disfacimento sembra incombere e contaminare ogni traccia di vita e di speranza fino a culminare nel luttuoso epilogo che ci riporta alla scena iniziale del film, strutturato come un cerchio infernale che ruota intorno al tema della morte (morale, sociale e fisica), fulcro principale del dramma di Wilder. Significativa la scena della partita a carte, dove, tra i “fantasmi” del cinema muto caduti realmente nell’oblio con l’avvento del sonoro, ritroviamo il grande Buster Keaton. Realtà e finzione, vita e arte si mescolano in uno dei film più amari della storia del cinema, viaggio nei territori più oscuri di una Hollywood spietata capace di creare grandi miti per poi sfatarli in un attimo. Scritto dal regista con la collaborazione di Charles Brackett e D.M. Marshman e progettato inizialmente come una commedia, il film è stato attualmente restaurato nelle immagini e rimasterizzato nel sonoro dalla Paramount che ha voluto, dopo un “Posto al sole”, donare alta qualità audio video al capolavoro di Wilder arricchendolo anche di contenuti speciali, facendolo uscire in una “Edizione speciale da collezione”. Vincitore di tre Premi Oscar (sceneggiatura, scenografia e musica), “Viale del tramonto” si è aggiudicato anche quattro Golden Globes, tra cui quello come miglior film dell’anno. (Paramount)

ERASERHEAD di David Lynch
David Lynch, punto! Questa recensione potrebbe chiudersi qui perché sul primo grande capolavoro di Lynch, “Eraserhead” (1977), si potrebbe dire tanto e troppo è stato detto erroneamente, ma tutto ciò che va fatto è guardarlo, ascoltarlo. Detto ciò passiamo al superfluo: trasformare in parole un’ immagine mentale, un incubo. Analizzare “Eraserhead” descrivendone la trama, come raccontare quegli strani incubi notturni, quelle metafore e allegorie frutto di associazioni inconsce che la nostra mente crea, è una strada impraticabile. Più facile, o meglio, meno difficile è trovare il senso del linguaggio lynchiano in un’opera prima che racchiude l’intero discorso filmico di Lynch, un discorso che il regista continuerà a portare avanti nelle sue opere successive. Seguiamo le peripezie di Harry (John Nance), il suo disorientante incontro con la famiglia di Mary (Charlotte Stewart), la scoperta di avere un “figlio” dalla stessa Mary, un figlio che ha le sembianze di un ibrido, un incrocio tra un feto prematuro ed un mostriciattolo, disgustoso e compassionevole al tempo stesso. Tutto avvolto da una frastornante atmosfera onirica resa claustrofobica dall’uso del teleobiettivo che restringe gli spazi e dalla dilatazione del tempo e soprattutto del suono. La storia è un’evidente ricostruzione allucinata dell’esperienza vissuta da Lynch nel violento ghetto di Philadelphia, con la prima moglie, Peggy e la figlia. Il film di Lynch produce sensazioni profondamente inconsce che lo stesso spettatore fatica a metabolizzare e comprendere, sensazioni talmente spiazzanti che lo stesso Stanley Kubrick decise di proiettare continuamene “Eraserhead” durante la lavorazione di “Shining”, sia per respirare e farsi guidare dall’ atmosfera creata da Lynch, sia per imprimere una profonda sensazione di angoscia nei propri attori. Si cerca spesso di trovare nell’opera d’esordio di Lynch affinità coll’espressionismo ed il surrealismo dei capolavori del muto degli anni ‘20, ma i set di “Eraserhead” non hanno nulla a che vedere con quelli stilizzati dell’espressionismo tedesco. Inoltre non vi è alcuna pretesa pittorica da parte di Lynch nè di creare similitudini tra l’ambientazione e le movenze dei personaggi, tantomeno di rendere “danzata” l’interpretazione di questi ultimi. Anche l’accostamento al surrealismo è una forzatura: l’opera di Lynch ha radicato in sé una linearità sottile, un discorso concreto, celato ma evidente. “Eraserhead” è un film di Lynch, tutto qui, un regista che non può essere inquadrato in nessun movimento specifico perché il suo cinema è un’ isola rispetto a tutto il resto, con i suoi oggetti che diventano entità maligne e il suo scavare alla ricerca del male nella normalità e della normalità del male. Per realizzare questo film il regista impiegò oltre quattro anni, dedicandovi tutto se stesso e tutti i suoi averi, tanto che, durante la lavorazione, Lynch fu letteralmente costretto ad abitare di nascosto negli studi, a causa delle sue difficoltà economiche. L’efficace scelta stilistica di utilizzare il bianco e nero sarà ripetuta anche nel film successivo di David Lynch, “Elephant man”, l’opera che farà conoscere il suo immenso talento visionario al mondo intero, un talento che il pubblico dei midnight movies aveva avuto già consacrato facendo diventare “Eraserhead” un film di culto.

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